a cura di Tiziana Moriconi |
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Cara lettrice, caro lettore
“La protesi al seno è un corpo estraneo, e si sente. Come quando hai una catenina al collo: d'estate la senti incandescente e d’inverno gelata. Può restare la sensazione di intorpidimento, di indolenzimento. E ti consigliano di continuare a massaggiare la parte, per evitare che si creino aderenze. Nel mio caso, ma non solo nel mio, le protesi sono salite e a volte si deve re-intervenire”. Ce lo racconta Angela (nome di fantasia), che a causa di un cancro al seno e della sua predisposizione genetica ha affrontato due mastectomie, ormai molti anni fa. La sua esperienza, come quella di molte altre pazienti, sta spingendo la ricerca nel campo dei biomateriali verso soluzioni diverse dal silicone. Ve le raccontiamo qui.
Buona lettura. |
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Tumore al seno: verso protesi biodegradabili che “rigenerano” i tessuti |
Nel mondo della chirurgia ricostruttiva e oncoplastica se ne parla ancora poco, ma in futuro le protesi al seno potrebbero non essere più di silicone. Anzi: potrebbero proprio non esserci più. Da alcuni anni, infatti, diverse aziende, anche in Italia, stanno lavorando all’idea di sostituire il silicone con protesi interamente biodegradabili, che possano restituire un seno il più possibile naturale alle pazienti: soluzioni che siano definitive e, sperabilmente, senza effetti collaterali. I primi studi clinici su piccoli gruppi di donne sono già partiti.
Quello al seno è il cancro più comune nella popolazione femminile: una diagnosi di tumore maligno su tre, nelle donne, riguarda la mammella. Grazie agli screening tempestivi e alle terapie sempre più efficaci, però, la sopravvivenza oggi è dell’88% circa. Il percorso terapeutico prevede quasi in tutti i casi la rimozione parziale (lumpectomia o quadrantectomia) o totale (mastectomia) della ghiandola mammaria, a cui spesso segue la ricostruzione, che è oggi considerata parte integrante della cura contro il cancro e, come tale, è a carico del servizio sanitario nazionale.
Nella maggior parte degli interventi si utilizzano protesi in silicone, che hanno indubbiamente molti vantaggi, ma che portano con sé lo svantaggio di dover essere sostituite (ogni 10-15 anni, di norma), possono dare luogo a fastidi e sono state correlate a una forma di linfoma che - in rarissimi casi, va detto - si può sviluppare nel seno.
“In tutto il mondo si sta cercando di trovare soluzioni diverse dal silicone per le protesi mammarie: molti stanno lavorando per trovare materiali che siano meno reattivi e un po’ più naturali per il corpo”, dice a Salute Seno Mario Rietjens, Direttore della Struttura Complessa di Chirurgia Plastica e Ricostruttiva presso l’Istituto Europeo di Oncologia e professore dell’Università di Milano.
In generale, l’idea alla base di queste protesi, costruite con materiali biodegradabili grazie alla stampa 3D, è di fornire una struttura predefinita (scaffold) che funga da “impalcatura” o da “terreno fertile” per far crescere al suo posto del tessuto della paziente stessa, e che si riassorba non lasciando alcun corpo estraneo nel seno. |
La protesi biodegradabile messa a punto da Lattice Medical |
In Francia al via la sperimentazione post-mastectomia
Una di queste aziende è francese, Lattice Medical, e nelle settimane scorse ha eseguito il primo impianto della sua protesi interamente biodegradabile in una paziente operata per un tumore al seno. “Abbiamo effettuato il primo intervento di ricostruzione del seno dopo una mastectomia totale. È andato molto bene e la paziente sta bene. Siamo i primi al mondo a impiantare una protesi mammaria completamente biodegradabile dopo mastectomia, in grado di rigenerare il tessuto adiposo autologo”, ci racconta Julien Payen, Ceo dell’azienda: “Per ora non possiamo dire molto di più, dobbiamo aspettare settembre per ulteriori comunicazioni sugli esiti e sullo stato di salute”.
La loro protesi è una gabbia stampata in 3D, composta da un biopolimero degradabile, in cui è racchiuso un piccolo lembo di tessuto proveniente da sotto l'area del seno. Questo lembo cresce per riempire la gabbia di tessuto adiposo, mentre la gabbia stessa viene assorbita dal corpo in circa 18 mesi. Se l’esito sarà quello sperato, verrà avviato uno studio clinico che durerà tre anni e coinvolgerà 50 pazienti in Francia, Spagna e Georgia. “Vogliamo ampliare l'uso del nostro prodotto, in primo luogo in tutti gli interventi al seno a fini di ricostruzione o estetici, per rimuovere l'impianto di silicone”, dice Payen: “Ma guardiamo anche oltre, come alla possibilità di utilizzare queste tecnologie per rigenerare la pelle dopo gravi ustioni o traumi”.
Per arrivare allo stesso risultato si possono seguire strade diverse. Secondo quanto riporta il Guardian, un’altra azienda francese, Healshape, spera di cominciare una sua sperimentazione nei prossimi due anni. In questo caso viene utilizzato un idrogel per stampare in 3D un impianto morbido. Insieme all’inserimento della protesi vengono iniettate cellule di grasso della paziente stessa che colonizzano lo scaffold, mentre questo scompare nell'arco di sei-nove mesi. Ancora: l'azienda CollPlant, israeliana, sta sviluppando qualcosa di simile utilizzando uno speciale bio-inchiostro a base di collagene estratto dalle foglie di tabacco ed ingegnerizzato.
La protesi riassorbibile made in Italy
Anche in Italia si sta lavorando allo sviluppo di una protesi mammaria innovativa e riassorbibile per una ricostruzione naturale del seno e sta per partire già una seconda sperimentazione. “Da diversi anni sto collaborando in questo ambito con un’azienda italiana, Tensive, ed è previsto per quest’anno l’avvio di uno studio multicentrico che coinvolgerà tre ospedali, tra cui lo IEO”, conferma Rietjens.
Grazie al finanziamento di investitori privati, istituzionali e dell’Unione Europea, Tensive ha completato con successo i test preclinici e, dal 2019 al 2021, ha condotto la prima sperimentazione clinica su 15 pazienti che avevano subito una lumpectomia per la rimozione di un tumore non maligno presso l’Azienda Ospedaliero Universitaria Pisana. Ciascuna paziente è stata seguita per un periodo da 12 mesi a 28 mesi. L’obiettivo è stato valutare la sicurezza,
la compatibilità con le tecniche diagnostiche (come la classica mammografia, ad esempio), l’impatto sulla qualità di vita delle pazienti, la loro soddisfazione e l’eventuale insorgenza di dolore o effetti avversi legati alla chirurgia. “La prima sperimentazione si è conclusa nel 2021 ed è andata molto bene – continua Rietjens – Si è cominciato con protesi piccole, con l'idea di estendere in futuro la sperimentazione a protesi più grandi, e magari anche sostituire il silicone nella mastoplastica additiva. Se i risultati saranno positivi, il materiale potrà essere utilizzato in Europa in un prossimo futuro”.
Grazie ai risultati della fase preclinica, infatti, l’azienda ha già ottenuto la certificazione ISO 13485 per la progettazione, lo sviluppo e la produzione del dispositivo medico. “La nostra azienda - commenta a Salute Seno Alberto Cantaluppi, MD, Presidente di Tensive - sviluppa nuove soluzioni per la chirurgia ricostruttiva. Tra queste vi è la protesi mammaria innovativa REGENERA, disegnata per degradarsi nel tempo e per essere lentamente sostituita dal tessuto molle della paziente, restituendo il seno naturale. Il nostro obiettivo - conclude - è di rivoluzionare il mercato multimiliardario delle protesi mammarie, offrendo un’alternativa sicura e naturale al tradizionale impianto in silicone e al trapianto di grasso”.
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NOTIZIE DAL MONDO
Linfoma associato alle protesi, quanto è frequente? |
Restiamo in tema di protesi mammarie e torniamo a parlare del linfoma anaplastico a grandi cellule associato ad esse. Jama Oncology ha infatti da poco pubblicato una lettera che ne stima l’incidenza negli Stati Uniti. I nuovi dati arrivano da uno studio condotto da ricercatori della Columbia University di New York e finanziato dal National Cancer Institute.
Il linfoma anaplastico a grandi cellule (ALCL) che si sviluppa nel seno è una patologia piuttosto rara, si legge nella lettera: rappresenta circa il 3% di tutti i linfomi della mammella ed è stato identificato come un possibile - seppur raro, appunto - effetto avverso delle protesi, in particolare di quelle texturizzate, cioè le protesi utilizzate sia nella chirurgia estetica che in quella ricostruttiva dopo intervento oncologico di mastectomia, che presentano una superficie "rugosa".
Per l'analisi, i ricercatori hanno utilizzato i dati contenuti nei 18 registri del Surveillance, Epidemiology, and End Results (SEER) raccolti tra il 2000 e il 2018: il tasso di incidenza calcolato (aggiustato per l’età) dei linfomi è risultato di 8,1 casi ogni cento milioni di persone ogni anno, in media. L’incidenza appare in aumento negli anni: si è infatti passati da 3,2 casi per cento milioni di casi registrati tra il 2000 e il 2005, a 4,4 tra il 2006 e il 2011, a 14,5 tra il 2012 e il 2018. L’aumento dell’incidenza, fanno notare, è in linea con quanto osservato anche nei Paesi Bassi, in Australia e in Nuova Zelanda. “Data la forte associazione con gli impianti texturizzati, tale aumento potrebbe essere correlato sia all’impiego crescente di questo tipo di protesi sia a una maggior sensibilità verso la malattia, ma potrebbe anche riflettere un aumento dell’incidenza dei linfomi del seno”.
“Queste sono, ovviamente, ipotesi che al momento non sono facilmente verificabili, ma il dato oggettivo di un aumento di questa tipologia di linfomi rimane”, commenta Andrea Sagona, ginecologo e chirurgo senologo presso la Breast Unit dell'Humanitas Cancer Center di Rozzano.
Attualmente, si stima che tra il 3% e il 5% delle donne adulte negli Usa abbiano questo tipo di protesi. Per il 2017, gli autori hanno calcolato che negli Usa ci sono stati tra i 310 e i 350 casi di ALCL nel seno. “Questi dati non devono allarmare tutte le pazienti che sono portatrici di protesi texturizzate, ma sono utili per stimolare una consapevolezza, in questa categoria di pazienti, della possibilità di sviluppare questa patologia. Che ricordiamo, si può sospettare in caso di aumento improvviso del volume mammario, arrossamenti diffusi della mammella, presenza di liquido periprotesico o ispessimento della capsula che riveste la protesi. Tutti segnali evidenti agli esami e alla visita clinica. Si consiglia quindi di sottoporsi periodicamente a visita senologica e ad esami strumentali, in base alla età della paziente. Il linfoma a grandi cellule - conclude Sagona - solitamente ha una buona prognosi e si risolve spesso con la sola rimozione della malattia a livello locale, associata o meno a trattamenti chemioterapici sistemici”.
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Bottone antipanico
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