Me ne ero accorta da un po’ che qualcosa fosse cambiato, ma solo giovedì scorso è diventato lampante: le amiche di mio figlio sono diventate nemiche. Alla festa per il suo settimo compleanno ho avuto tutta la classe sott’occhio e la divisione maschi e femmine è stata chiara. Che poi, forse, divisione non è neanche la parola giusta, perché le bambine erano apertissime, mentre i maschi costruivano antipatici muri.
Li guardavo e cercavo di ricordare come eravamo noi, in prima elementare, ma non mi sembrava proprio così. Chissà.
Poi mi è venuto in mente quello che mi aveva detto qualche mese fa durante un’intervista sugli stereotipi di genere e giocattoli Francesca Antonacci, docente di pedagogia all’Università Bicocca. "Diversi studi hanno dimostrato che se osserviamo i bambini interagire, emerge una disposizione naturale ai giochi di relazione e cura per le femmine, e a quelli di sfida e competizione per i maschi. Ma questo non vuol dire che non ci siano eccezioni: nel gioco c’è una fluidità che riverbera quello che accade nella vita".
Quindi è solo una questione di interessi diversi o c’è qualcosa di più?
Perché a te lo posso confidare: a vedere quei bambini (tra cui il mio) che trattavano male le loro compagne mi sono chiesta se fosse il caso di intervenire. Mio marito dice che sono esagerata, che è tutto normale. Probabilmente ha ragione, ma a forza di leggere dati sulla violenza sulle donne mi è venuto il dubbio che il germe di atteggiamenti malati possa nascere anche così. E allora ho richiamato Francesca.
Che dici, è normale?
“Certo, è una fase, è una forma di identificazione di genere che porta a una radicalizzazione. Riuscire a identificarsi nel proprio genere passa anche attraverso questo. È come i tifosi quando attaccano la squadra avversaria. Pensate alla diatriba Milan e Inter: trovare un “nemico” nell’avversario aiuta a identificarsi nel proprio gruppo, è una forma cognitiva per conoscere il mondo”.
E un genitore cosa dovrebbe fare?
“Niente (risata). Di base, meno gli adulti fanno e meglio è perché i bambini, tra loro, si autoregolano. Di certo un adulto non deve far sentire in colpa il figlio, ma neppure rinforzare il comportamento del bambino. La sai una cosa?”.
Dimmi.
“Se, per esempio, la classe di tuo figlio facesse una gara con l’altra sezione, subito le compagne diventerebbero delle alleate, anche se femmine”.
Ma quindi succede a tutti i bambini?
“L'età in cui accade dipende molto dai tipi di gruppo. Ci sono classi dove non succede proprio, oppure molto più avanti, alle medie per esempio”.
Quindi questo atteggiamento non c’entra nulla con la violenza di genere?
“Secondo me assolutamente no. La normale attribuzione del diverso uguale sbagliato avviene nel fisiologico processo di crescita della propria soggettività. È una fase che poi si esaurisce”.
E così ho tirato un sospiro di sollievo. Poi mi è capitato di sentire un’altra pedagogista, Emily Mignanelli (autrice di Genitori a scadenza, Feltrinelli Urra), a cui oggi vorrei fare tanti auguri perché è il suo compleanno. E allora già che c’ero le ho fatto un paio di domande.
Emily, cosa possono fare i genitori per essere sicuri di non crescere figli violenti?
“Un bambino diventa svilente della figura femminile sulla base dell’esempio in famiglia. Il cuore di tutto è proprio lì: dal bambino non esce niente che non sia entrato in qualche modo”.
Qualche consiglio?
“Una buona pratica che troppo spesso non viene considerata è far vedere al figlio (ma ovviamente anche a una figlia) che la mamma si prende del tempo per sé, così da passargli questo messaggio: io esisto come madre, come moglie, ma anche come donna. È importante farlo apertamente, non solo quando il bambino non c’è. Il mio consiglio alle madri, quindi, è quello di abbandonare il campo consapevolmente, per abituare i figli alla sottrazione relazionale, cioè al fatto che non potranno avere attorno sempre persone dedite a loro.
Sbang.
E a proposito di tempo per sé, domani parto per una settimana di vacanza quindi venerdì prossimo non vi arriverà la newsletter. Ci sentiamo venerdì 8 luglio!